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domenica 27 novembre 2016

After



 

Una mia alunna la scorsa primavera mi ha detto che il suo libro preferito era After, e quando le ho detto che non lo avevo mai letto mi ha risposto "Noo, prof! E' stupendo, non sa cosa si perde". Così, ligia al dovere professionale e spinta dalla curiosità, ho rimediato alla lacuna. Tra l'altro era un libro che avevo cominciato a vedere dappertutto, dalla biblioteca agli scaffali del supermercato, persino di quello minuscolo qui in paese. Cercando qualche informazione in rete, ho scoperto che il libro è il nuovo "fenomeno mondiale" dell'editoria (il che in effetti non mi stupisce, dato che lo ha letto persino la mia alunna, il che equivale a dire che è stato comprato anche da esponenti di quel percentile della popolazione che in linea di massima comprerebbero piuttosto che un libro un soprammobile a forma di cervo in plastica verde all'IKEA, magari in più esemplari). Le ragioni principali del successo, che include un film in produzione e milioni di copie vendute nel mondo, mi sarebbero rimaste oscure se prima di cominciare non mi fossi doviziosamente informata (a quanto pare nasce come fanfiction che trasfigura in personaggi letterari i membri degli osannatissimi One Direction), perché come forse qualcuno di voi, astuti seguaci del blog, avrà intuito, After è un libro talmente brutto che se lo avessi letto in forma cartacea e non in ebook avrei avuto scrupoli ad usarne i fogli per farne pallottole da infilare nei miei scarponi bagnati dopo un'uscita scout (voglio molto bene ai miei scarponi). E' un libro talmente brutto che non ho avuto il coraggio di dire alla mia studentessa chiaro e tondo quanto mi fosse non piaciuto. Forse devo ancora farmi le ossa nel mestiere di insegnante.
E' talmente brutto che esercita una specie di fascino perverso, la volontà di scoprire fino a che punto si può scavare già dopo che si è da tempo toccato il fondo della bruttezza, e da questo punto di vista il romanzo non vi deluderà, perché devo dire che il finale è orrendo perfino oltre l'immaginabile.

Se proprio volete sapere di cosa parla, cercherò di sintetizzare la trama in maniera semplice, comprensibile a chiunque: lui e lei, dai poco realistici nomi di Tessa e Hardin, sono studenti di college (ironia della sorte, studiano letteratura), si incontrano e sono attratti da una irresistibile passione in grado di vincere ogni ostacolo, come il fatto che lui sia il peggior stronzo mai comparso sulla terra e lei una deficiente patentata. Litigano, fanno pace, fanno sesso, litigano, fanno pace, fanno sesso, litigano, fanno pace, fanno sesso, rifanno sesso, rilitigano, fanno pace, fanno di nuovo sesso, litigano, fine. Ora, per rendere giustizia a questa complessa architettura narrativa, non omettiamo che in effetti l'intero romanzo può avere anche una seconda lettura, diciamo allegorica, un po' come la Divina Commedia o il Pilgrim Progress. Infatti, possiamo anche leggere l'opera come rappresentazione del fatale incontro tra la Stronzaggine e la Scempiaggine, che infiniti lutti addusse agli adolescenti e molte anzitempo all'Orco generose travolse alme di potenziali lettori.
Una cosa però può essere detta di positivo su After: è forse l'arma più utile in mano a quelli che sostengono che la famosa massima "L'importante è che i Giovani Leggano" è una solenne baggianata. "L'importante è che i Giovani Leggano" infatti è sostanzialmente il modo in cui ci autoconvinciamo che in fondo è persino una buona azione, da parte delle case editrici, pubblicare immondi escrementi editoriali, dato che pare che torme di giovani de-letturizzati si compiacciano nel pascersene con entusiasmo. Ebbene, no. Se davvero è Importante che i Giovani Leggano, che leggano il retro delle confezioni di Special K mentre fanno colazione, che leggano la guida tv, che leggano Topolino (e questa non era una battuta, Topolino può vantare soggettisti e sceneggiatori, per le sue storie, che in confronto alla povera Anna Todd, autrice di After, sono più o meno Shakespeare), ma che non leggano roba di questo genere.
Mi vengono i brividi a pensare che qualche giovane pulzella (purtroppo, il target di questo tipo di obbrobri romance è ovviamente femminile) potrebbe rovinarsi il gusto letterario e il piacere di leggere abituandosi a considerare normale  questo tipo di insulso ritmo narrativo incoerente, ripetitivo, piatto. Quattrocento pagine di paratassi in cui una frase subordinata è una specie di bestia rara, pagine e pagine di interminabili scambi tra i protagonisti in cui ogni battuta è costituita da un massimo di quattro parole (mi concentro sulla forma, di questi dialoghi, ma naturalmente c'è la nota dolente del contenuto, invariabilmente e atrocemente cretino). E che dire del trascorrere un intero volume in un allucinato, squallido orizzonte narrativo fatto di aule di college, dormitori di college, sedi di confraternite di college e locali notturni che scivolano come quinte teatrali intercambiabili dietro i due protagonisti sempre intenti a recitare la stessa scena (litigano, fanno pace, fanno sesso etc…) senza che sia possibile ravvisare nemmeno una lieve parvenza di vita reale? 
Le lezioni di letteratura nell'immaginario college di Tessa e Hardin: il professore entra, dice "Oggi parleremo di Orgoglio e Pregiudizio. Che ne pensate?" e gli alunni (Tessa e Hardin, gli altri sono comparse cartonate posizionate sulle varie sedie dell'aula) esprimono il loro "parere" (virgolette d'obbligo) sul libro: Elizabeth è troppo prevenuta, Darcy è uno stronzo. No, non è vero, Darcy è un eroe, tu sei uno stronzo. Ma che dici, sei frigida proprio come Elizabeth. No (Tessa piange), come osi, non è vero, sei perfido! Come ho potuto provare qualcosa per te? Interviene il professore: la lezione è finita, per la prossima volta quindici righe su "Darcy ed Elizabeth si sposano per amore?". 
Il duro guadagnarsi il pane col sudore della fronte nell'immaginaria città accademica di Tessa e Hardin: a Tessa serve un "lavoretto", quindi, fresca matricola con neanche un esame sul libretto, va a fare un colloquio per uno stage presso una casa editrice (svolgimento del colloquio: "Le piace leggere?" "Oh, sì, tanto!" "Che colpo di fortuna, incredibile! Lei è proprio il tipo di persona che stavamo cercando!"), viene seduta stante assunta, stipendiata, munita di ufficio privato , orario flessibile (la mattina deve andare ai suoi complessi corsi di letteratura, ricordiamocelo) e segretaria personale. Beh, che c'è? Non è la vostra esperienza di stage universitario? Siete proprio degli sfigati, allora! 
I rapporti familiari ed affettivi nelle immaginarie famiglie di Hardin e Tessa: lei viveva con la madre, donna puritana a tal punto da considerare non dico con disapprovazione, ma con crisi incontrollate di rabbia e panico il fatto che nel dormitorio della figlia si aggirino persone che hanno dei tatuaggi: appena fuori dal radar materno, Tessa si trasforma in una specie di ninfomane psicopatica. Lui odia il padre perché lo ha abbandonato con la madre lasciandoli in estrema povertà, praticamente al livello del rovistaggio nei cassonetti del supermercato, per non parlare del fatto che era un alcolizzato violento. Il padre in questione ha però avuto un inaspettato riscatto sociale, riciclandosi nella mezza età come rettore (!!) del college frequentato dal figlio.
E potrei continuare.

La Mente che ha creato tutto ciò.
Mi vengono i brividi a pensare che i giovani cervelli delle mie alunne già zoppicanti a scuola si anestetizzino ulteriormente sciroppandosi pagine e pagine di roba del genere. In un certo senso mi commuove pensare che la mia poverina lo trovasse avvincente: qualunque entusiasmo letterario mi vede solidale, ma quanto poco ha avuto dalla sua vita di lettore qualcuno che si emoziona per una cosa così? Quanto di più chiunque meriterebbe dalla vita che libri così brutti!
Ma c'è un dato che ho volutamente lasciato per ultimo e che mi impedisce di archiviare la storia come eclatante esempio di cattivo gusto adolescenziale. Ed è la portata catastrofica di diseducazione affettiva che il libro porta con sé. Celebrato come il trionfo "editoriale" di una grande passione che fa impazzire milioni di lettrici in tutto il mondo, il libro in fondo è l'agghiacciante cronaca di un rapporto disturbato e violento, in cui abbandonarsi alla "passione" significa permettere all'altro di abusare psicologicamente e fisicamente di noi. Così la cattiveria e l'abuso diventano "fascino magnetico", la sottomissione più beota "passione folle", l'ubriachezza molesta "libertà" ed il passare sul cadavere di chiunque intralci il raggiungimento immediato del nostro piacere "indipendenza".
Quindi, passi per la stupidità, la piattezza, la bruttezza stilistica, lo spreco di carta, l'insulto all'intelligenza del lettore. Quello che mi fa davvero infuriare è che questo rigurgito sia percepito come una storia "romantica", la storia di un "grande amore". Non è così. E nessuna, adolescente scervellata o meno che sia, merita che le venga detta una bugia del genere.

L'insulto finale.
PS: il post è già troppo lungo ma non posso omettere che sull'onda del successo di After sono stati ripubblicati con copertina simile e strillo "i romanzi più amati da Tessa e Hardin" Anna Karenina, Orgoglio e Pregiudizio e Cime tempestose. Qui un articolo di Top Girl alle prese con un'insolita svolta culturale nel suo palinsesto editoriale, che vi spiega che anche prima di After esistevano storie d'amore universali e magnifiche, insomma che la grande letteratura non è nata con Anna Todd come si potrebbe pensare, ma che qualcuno aveva già fatto qualche tentativo passabile prima del capolavoro immortale su Hardin e Tessa che consacra il genere per sempre, e che quindi si può dare una chance a questi prequel ottocenteschi di discreta fattura. No comment. Fate voi.

mercoledì 14 ottobre 2015

Inside out!


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Avete visto Inside Out? Se la risposta è no, rimediate subito.
E' uno dei migliori film d'animazione della Pixar, e se questo non vi dice nulla allora diciamo semplicemente che è un bellissimo film. Veramente. Intelligente, arguto, sorprendentemente originale e visionario. Che non ha paura di porsi grandi domande e propone veri virtuosismi metaforici, in una trama che si sviluppa senza perdere un colpo, piena di umorismo ma senza rinunciare alla profondità e con una serie di trovate di straordinaria intelligenza narrativa. Quindi andate a vederlo, se non l'avete fatto, e ve lo scrivo adesso perché da ora in poi si parte con gli spoiler.

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Inside Out è un film che parla delle emozioni che abitano la testa ( o forse sarebbe meglio dire il cuore) degli uomini. In particolare, le emozioni che abitano nella testa di Riley, una bambina di undici anni. Sono Gioia, Tristezza, Paura, Disgusto e Rabbia, e si alternano al comando della consolle della sua mente, sotto la leadership indiscussa di Gioia, che sembra essere il tratto principale della personalità di una ragazzina con una famiglia affettuosa ed una vita piena e felice. Ogni esperienza che Riley vive viene immagazzinata nella sua memoria sotto forma di una scintillante sfera che ha il colore dell'emozione  prevalente nel momento in cui l'ha vissuta. Per la maggior parte, quindi, l'archivio labirintico  della sua memoria a lungo termine è tappezzato di ricordi del brillante giallo oro di Gioia. Non mancano sfere verdi per Disgusto, bravissima ad evitare, come commenta Gioia, che Riley venga avvelenata fisicamente o socialmente, rosse per Rabbia, molto bravo a far rispettare i diritti di Riley, e violette per Paura, esperto nel tenerla fuori pericolo. Poi ci sono le sfere blu di Tristezza: ed ecco il grande interrogativo del film: a cosa serve la tristezza? All'inizio non riusciamo a capirlo, esattamente come Gioia, che, gentilmente ma con fermezza, fa di tutto per tenere Tristezza il più possibile lontano dalla consolle che governa gli stati d'animo di Riley. Per Gioia, il bene di Riley dipende esclusivamente dal mantenerla in un mood ottimista e positivo, perchè affronti con allegria e dinamismo ogni avvenimento, ed il suo sistema ha funzionato così bene durante l'infanzia spensierata che le altre quattro Emozioni che coabitano la testa della ragazzina riconoscono a Gioia un'indiscussa autorità. 

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Eppure, la novità di un trasloco che sradica Riley dai luoghi dov'è cresciuta e dalla vita che ha determinato gli aspetti fondamentali della sua personalità è sufficiente per mettere in crisi questa gestione. Lo squallore dei sobborghi di una metropoli come San Francisco, la nuova scuola, l'allontanamento dagli amici di sempre, una serie di cambiamenti difficili da affrontare tutti insieme rendono impossibile arginare l'intervento di Tristezza, e l'ostinazione di Gioia a mantenere la collega lontana dalla consolle operativa finisce per creare un disastro: lei stessa e Tristezza vengono scaraventate lontano dal Quartier Generale, nei labirinti della memoria a lungo termine, mentre al comando rimangono Rabbia, Paura e Disgusto, spaventati e disorientati dall'improvvisa responsabilità, che tentano senza alcun successo di simulare la presenza di Gioia alla consolle, finendo per far reagire Riley in modo sempre più inconsulto.
Alle vicende esterne, sceneggiate con tempi comici perfetti (indimenticabile la scena della cena in famiglia, dove vediamo interagire anche le emozioni dei genitori di Riley, in un crescendo di incomprensioni esilarante) fanno da contrappunto le vicende "interne", ovvero il viaggio che Gioia e Tristezza devono intraprendere per riuscire a tornare al Quartier Generale, e che le costringe ad attraversare tutta la mente di Riley. E' qui che il film dà il meglio di sé, rivelando una potenza immaginifica ed una raffigurazione davvero efficace dei meccanismi della mente. Camminando con loro scopriamo che fine fanno gli amici immaginari che popolavano la nostra infanzia, come funziona la produzione dei sogni (è un vero e proprio studio cinematografico dove si lavora su copioni scritti rimaneggiando ed alterando le esperienze della giornata), come mai certi motivetti ci entrano nella testa per non uscirne più e ci troviamo a canticchiarli tra i denti nei momenti più assurdi, cos'è veramente il Subconscio, come funziona l'elaborazione del pensiero astratto (una sequenza quasi avulsa dal resto del film e semplicemente memorabile).

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Ma soprattutto, diventa a poco a poco chiaro, a Gioia ed anche a noi, che la Tristezza fa parte della vita e che crescere significa imparare a conoscerla. Che senza Tristezza non si può sviluppare la compassione nei confronti degli altri, ma soprattutto la necessità vitale di chiedere aiuto a chi ci vuole bene quando serve e capire che non ogni cosa può essere fronteggiata da soli. Così è proprio Tristezza che, con l'incoraggiamento di Gioia, alla fine rimedia con semplicità ai disastri che nel frattempo stanno accadendo all'"esterno" grazie all'inesperienza di Rabbia, Paura e Disgusto e riconcilia Riley con la nuova vita che, volente o nolente, deve condurre lontana dai luoghi dov'è cresciuta. Sfogandosi con il pianto in un abbraccio pieno di affetto con i suoi genitori, Riley lascia simbolicamente l'infanzia, mentre i ricordi fondamentali che l'avevano caratterizzata si tingono delicatamente di malinconia, ed entra in una nuova fase della sua vita, fatta di esperienze più complesse e sfumate.

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Il film incanta per la sua attenzione al dettaglio e propone una visione intessuta di consapevole e delicato ottimismo, incentrata sull'importanza di accogliere ogni aspetto della vita nella certezza che tutto volge sempre al bene quando camminiamo accanto a persone che ci amano, e che questo aspetto è molto più determinante dell'allegria (che comunque non guasta) per essere davvero felici.
Fa ridere, fa piangere, fa pensare, sorprende e meraviglia, interroga e propone risposte. Ed è visivamente una gioia per gli occhi. Ad un film non si può chiedere di più, per quanto mi riguarda è il migliore dell'anno, ed entra nell'empireo dei miei  favoriti di sempre. Io l'ho già visto quattro volte. E voi?

martedì 3 marzo 2015

Hobbit, battaglie, cinema. No.



Non l'ho ancora mai fatto. Ma prima o poi doveva venire il momento. Questo capitolo delle Recensioni di Dile è la recensione di un film. E' la recensione de Lo Hobbit -La Battaglia delle Cinque Armate. C'è qualche spoiler, siete avvisati. 




Breve premessa (lo giuro, breve). Sono una tolkieniana. Ma non una tolkieniana fanatica. Certo, dopo la lettura infantile de Lo Hobbit ho letto da preadolescente Il Signore degli Anelli e sperimentato tutti gli effetti dell'amore ossessivo che può dare una grandiosa esperienza di lettura a dodici anni: l'ho idolatrato, riletto autisticamente una quindicina di volte, bagnato di lacrime, citato a memoria, copiato sul diario (è una fonte inesauribile di frasi epiche), riesaminato dopo aver letto Il Silmarillion per maggiore consapevolezza, ho letto tutte le Appendici inclusa quella sul Calcolo degli Anni, ho imparato a scrivere in caratteri elfici, ho composto poesie di dubbio gusto sui boschi di Lothlòrien e via nerdeggiando: non mi sono fatta mancare nulla. La Signoredeglianellite giovanile è poi sfumata in un longevo amore e in una vivida ammirazione letteraria per Tolkien che dura tutt'ora.

Questo non mi ha impedito di apprezzare molto i film di Peter Jackson, anche nelle loro discrepanze dal libro, perché le ho percepite come ragionevoli scelte registiche, sempre o quasi giustificate per il bene dell'opera cinematografica. Dieci anni fa al cinema mi sono emozionata e commossa (mi ricordo ancora la fibrillazione di quando sono andata a vedere il primo della trilogia, con la mia amica Martina, dopo la scuola), e a casa ho appeso in camera poster del film. Insomma, non sono una talebana della trasposizione filologica quando si passa dai libri ai film.

Il problema è che Lo Hobbit è un libro lungo meno di un terzo de Il Signore degli Anelli, scritto in modo molto diverso e con intenti molto diversi. Trattarlo come materiale per una nuova trilogia epica ignorandone bellamente il carattere fiabesco, allungando il brodo per totalizzare un'altra decina di ore di film aggiungendo qua e là pezze tratte dalle Appendici del Signore degli Anelli o intere sottotrame create ex novo era un'operazione ad alto rischio. E io ero scettica, ma ho concesso a Jackson il beneficio del dubbio. E devo dire che ho trovato Un Viaggio Inaspettato più che passabile, gradevole e fedele al "sapore" peculiare del libro. Purtroppo, l'anno scorso La Desolazione di Smaug mi ha invece deluso: coinvolgimento e sospensione di incredulità zero.

E veniamo a noi. Le aspettative erano basse, davvero basse, e la visione de La Battaglia delle Cinque Armate non le ha smentite.
 Il problema non è neanche che è poco fedele, e nemmeno l'indegno allungamento di brodo (tanto per chiarirsi, la battaglia del titolo nel libro occupa un capitolo). Il problema sta nella qualità del materiale che è stato inserito per arrivare alla lunghezza voluta.

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"Tolkien, perdonami!"
Cominciamo da lei, perché può assurgere a simbolo di questo problema. Tauriel, l'elfa uscita dalla mente degli sceneggiatori e piazzata in mezzo alla trama con la grazia di una testata nucleare. Si stenta a credere come sia stato possibile creare un personaggio tanto detestabile senza ricevere in cambio assolutamente niente sul piano del pathos, del coinvolgimento emotivo dello spettatore, della profondità della trama. Tauriel è il male. Tauriel provoca l'ulcera. Tauriel origina nello spettatore la voglia di vederla MORTA. Avevo perso ogni speranza di accettare un personaggio femminile inserito perché mancano personaggi femminili (motivazione  di per sé assurda), con un nome orrendo, una personalità lagnosa e la simpatia di un calcolo renale, quando nel precedente film avevo assistito alla battuta sul contenuto dei pantaloni di Kili, improvviso precipitare del film in un baratro del kitsch che stenderebbe roba molto più valida di questa.  Ma niente è paragonabile all'orrido triangolo Legolas-Kili-Tauriel che ha modo di esplicitarsi compiutamente in questo film. Il trasporto dello spettatore è pari allo zero. Ogni singola scena wannabe-romantica tra l'elfa e il nano è ridicola, posticcia, insensata (il fatto che lui le arrivi circa all'ombelico non aiuta). Legolas geloso è quasi peggio. Non c'è un singolo momento di empatia che avvinca a questa sottotrama, le paturnie sentimentali del terzetto sono di una pochezza stroncante per qualsiasi volenteroso che desideri sinceramente seguirle mentre si dipana il resto della storia.  Non ci si possono neanche godere in santa pace le morti illustri del finale senza doversi sorbire Tauriel alias la Piaga da Decubito che blatera di cuore-amore-dolore. E nemmeno muore, alla fine: e dire che aspettavo a gloria la sua dipartita.

Altra storyline riempitiva, presa dalle Appendici del Signore degli Anelli, è lo scontro del Bianco Consiglio con Sauron, un tema che sarebbe anche interessante, se almeno avesse una qualche attinenza col resto del film. D'accordo, era un'ottima occasione per rivedere Cate Blanchett, Christopher Lee e Hugo Weaving con addosso gli abiti di scena. Ma se ne poteva tranquillamente fare a meno, anche perché l'epico scontro risulta noiosetto e persino farsesco quando Galadriel ha di nuovo l'attacco epilettico "I've got the Power" stile Compagnia dell'Anello, tranne che questa volta dura molto di più… e l'aspetto indemoniato è più repellente.

"Tò, il Cugino Dain. Era un po' che non ci si vedeva!"

Forse che ci si può consolare col resto? No. La battaglia vera e propria è confusa malgrado ci siano a disposizione due ore per spiegarla. L'arrivo "risolutivo" del Cugino Dain lascia attonito chiunque non abbia capito che Thorin lo ha mandato a chiamare tramite i corvi -ossia chiunque non lo sappia già. E comunque ci si limita a guardarsi in cagnesco per oltre un'ora prima che arrivino i Veri Cattivi, seguiti poi dagli Altri Veri Cattivi, che in ogni caso non è chiaro come vengano sbaragliati improvvisamente sul finale. Hanno tagliato il ritorno di Beorn (che già nel film precedente era stato sacrificato in modo indegno), quando sarebbe stato tanto meglio vedere il Mutapelle coinvolto nella lotta invece che, poniamo, l'intera gita fuoriporta di Legolas e Tauriel "a nord" completa di conversazione amena "qui hanno ucciso la mia mamma" (epico il vitreo sguardo da cernia che lei sfodera in risposta).

Insomma, è tutto da buttare? No, si salva qualcosa. Innanzitutto c'è la solita comicità più o meno involontaria ma accettabile e quasi simpatica che si faceva sentire anche nella trilogia del Signore degli Anelli. Per esempio, da tradizione, non manca una battuta epica di Legolas con sguardo serissimo rivolto all'orizzonte: "Questi pipistrelli sono allevati per un solo scopo. La guerra." (ma come si fa a non ridere?!). Altro dettaglio mitico è il fatto che l'esercito degli orchi sia dotato di enormi troll con una specie di cappellino a punta di pietra in testa, il cui solo scopo è di menare una craniata alle mura nemiche per poi stramazzare al suolo, ovviamente autostorditi. Ma LOL!

Restando più sul serio, naturalmente la fotografia, gli scenari, gli effetti speciali sono magnifici. Ma anche nella trama qualcosa di godibile c'è: a me è piaciuta la resa del personaggio di Bard e della sua storia, incluso il suo ruolo nelle lunghe contrattazioni prima della battaglia e la sua solitudine. Martin Freeman è un Bilbo magnifico, e il rapporto tra lui e Thorin è ben descritto e si evolve con delicatezza. E non è stato male vedere il lato avido, gelido e sprezzante degli elfi, ben impersonato da Thranduil: non tutti sono nobili d'animo e puri di intenti come la gente di Lòrien o di Gran Burrone.

Tutto questo, però, non basta a salvare il film, anzi, semmai accresce il fastidio per le mille occasioni perse: poteva essere un buon lavoro e non lo è stato. Come dice Kili a Tauriel dopo averle regalato un pregevole sasso, io so quello che provo. Ma nel mio caso, non è ammore.

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mercoledì 25 giugno 2014

Kristin figlia di Lavrans

(Dopo il grande successo di Attenti al Can(on)e, una bella recensione, per far precipitare il picco di interesse!)
Sigrid Undset
Con Agnes Grey parlavo dell'amaro in bocca lasciatomi dalla rilettura di un romanzo la cui protagonista (o meglio, la cui autrice) non ama tutta la realtà. Ebbene, l'autrice di Kristin figlia di Lavrans ama tutta la realtà. Il suo libro, infatti, è uno dei più belli che abbia letto di recente. Una sorpresa assoluta. Non ne avete mai sentito parlare? In effetti, in Italia non è propriamente notissimo. Kristin Lavransdatter fruttò alla sua autrice, la norvegese Sigrid Undset, il premio Nobel nel 1928, ed in Norvegia è molto noto… anzi, negli ultimi anni è stato ulteriormente riscoperto, grazie anche ad un film diventato parte del patrimonio nazionale. Ci sono addirittura musei dedicati a Kristin, e "giornate di Kristin" a Jorundgaard, il villaggio dove è ambientata una buona parte della sua storia. 

E' un lungo romanzo, di oltre seicento pagine, incentrato sulla vita di una donna norvegese nel XIV secolo, dall'infanzia alla vecchiaia. L'affresco del medioevo scandinavo è semplicemente perfetto: la Undset era figlia di un noto archeologo, ed ha voluto fortemente ricostruire una realtà materiale precisa in tutti i suoi dettagli. I romanzi che parlino di Medioevo senza anacronismi sono più unici che rari, non solo per il pregiudizio che ancora riguarda quest'epoca storica, ma anche per la difficoltà di abbandonare il nostro sguardo postmoderno per descrivere una realtà ai più sconosciuta quanto una cultura esotica...  Invece, con una vividezza impressionante, Kristin viene posta dalla sua autrice in un mondo vivo, vero, brulicante, con i suoi stili di vita, le sue scoperte, le convinzioni, i costumi. Si tratta di un mondo dove all'antica cultura pagana comincia a sostituirsi la concezione cristiana dell'esistenza, e, cosa che mi ha colpita particolarmente, di un mondo molto più in comunione con il continente europeo di quanto forse ci immagineremmo per queste vaste lande nordiche: la Norvegia è a pieno titolo parte della circolazione di prodotti, di arte, di cultura, di idee che rappresentava l'Europa medioevale, prima del forte affermarsi degli stati nazionali. E' un Medioevo non "pruriginoso", ovvero non dipinto con lo stile tipico di certi romanzi, che basano buona parte del loro fascino sulla curiosità che il lettore ha di scoprire chissà che "orrori", ma sensato, realistico, sincero nella descrizione delle durezze della vita come delle gioie, della cultura ancestrale come di quella nascente, con personaggi così veri e vivi che li comprendiamo profondamente: denotano il profondo sguardo sulla persona di cui è capace l'autrice.

Sullo sfondo affascinante del Regno di Norvegia e della nutrita schiera di personaggi, legati da complesse relazioni familiari, consortili, politiche, si staglia la figura della protagonista. Il romanzo è la storia della sua vita, delle esperienze che attraversa dalla giovinezza alla vecchiaia, l'amore, le infelicità, le stagioni della maternità e della maturità. La complessità di questo personaggio splendido si specchia nei rapporti di cui è intessuta la sua vita, multiformi e sfaccettati: il padre, la madre, il fidanzato e poi amico per la vita Simon, il marito Erlend, i figli... ognuno di essi rappresenta un aspetto della crescita fisica, morale e spirituale di Kristin.

E' un romanzo lungo e ricchissimo, troppo per parlarne esaurientemente in un post. Mi limito ad annotare alcuni elementi che secondo me aiutano ad inquadrare l'opera nel suo insieme: si tratta anche degli elementi che più mi hanno colpita durante la lettura.
Il monumento di Kristin a Sel, in Norvegia
Il primo è certamente questo: il matrimonio della protagonista con Erlend. Kristin ed Erlend si sposano per amore, forzando in qualche modo la mano della famiglia di lei, che non è d'accordo. Desiderano stare insieme con tutta l'intensità di una passione romantica in piena regola, che non si preoccupa di infrangere regole sociali e morali, perché più forte di qualsiasi rimorso. Si ameranno tutta la vita, e nonostante questo, il matrimonio sarà molto travagliato, segnato da delusioni e infelicità, oltre che dalle durezze dell'esistenza. Non c'è niente di idealizzato nel loro rapporto, anzi, spesso si ha l'impressione che, malgrado il loro reciproco amore, sarebbero stati più felici l'uno senza l'altra: anche loro se ne rendono conto pienamente. Il racconto del loro matrimonio è tuttavia splendido, un inno alla commovente capacità di un uomo e una donna di aggrapparsi l'uno all'altra riconoscendo un vincolo che, poiché scelto liberamente, è più forte delle loro debolezze, dei loro peccati, anche del logorio del tempo che ci cambia. Né Kristin né Erlend sono dei santi, tutt'altro: spesso, nel corso della loro vita si fanno del male con le loro stesse mani, ma al fondo di ogni momento del loro matrimonio, è vivo, bruciante, a volte doloroso ma limpido il ricordo, la consapevolezza della loro scelta comune, del loro impegno reciproco, dell'amore che li ha portati, ancora giovani, a scegliersi l'un l'altra a dispetto di tutto: e poiché in quella scelta hanno scommesso se stessi, nessuno dei due è disposto a non assumersene ogni responsabilità.
Il secondo aspetto è la percezione del tempo che passa, delle età della vita che si susseguono, delle situazioni che cambiano. Per ogni tempo dell'esistenza c'è una lotta, una dignità, un intero universo di valori simbolici che, grado per grado, la protagonista medita e assimila. Kristin, come tutti, è inscritta in un succedersi di generazioni, cui è legata dalla parentela, ma anche dalle amicizie. Si muove tra il rispetto e l'amore che la lega al padre, il modello morale da cui è irresistibilmente attratta ma al quale non riesce a conformarsi, e che illumina e accende tutto l'universo dell'infanzia e della giovinezza; e l'attaccamento viscerale ai suoi figli, che ha portato in grembo, cresciuto ed educato, e che pure sono altro da sé, bambini e poi giovani uomini che compiono le loro scelte, allontanandosi, sperdendosi nel "mondo", vivendo insomma le loro vite. Le stagioni della vita donano e portano via, e Kristin impara a ricevere e lasciare andare, nella sempre più chiara consapevolezza che nulla è davvero "nostro", tutto ci è dato e ne dovremo rendere conto.
Il terzo aspetto, il più fondamentale: la grazia. Fondamentalmente, Kristin figlia di Lavrans è un romanzo sulla grazia, che accompagna la lotta della vita e illumina di una luce di senso ogni suo aspetto, anche quelli più desolati e sordidi. Dicevo, a proposito di Agnes Grey, che il suo è un mondo dove un destino immutabile separa il bene dal male, i buoni dai corrotti: un mondo  a tinte forti, che non lascia spazio per un'ambiguità morale in nessuno dei personaggi. Questo ha indubbiamente il suo fascino, ma sarebbe difficile obiettare che non stia qui la sua principale debolezza. Il mondo di Kristin, da questo punto di vista, è un mondo incredibilmente più realistico: le scelte sbagliate, il bene, il male, il peccato, la redenzione, la speranza di bene, la generosità, la stoltezza si agitano in ciascuno dei personaggi, ed agitano il mondo e la storia. E' questo che dà al romanzo il suo ampio respiro, e al tempo stesso la sua modernità. Da notare che non stiamo parlando di un universo che non ha o ha smarrito il senso del bene e del male, o in cui in fondo tutto questo è indifferente: ci si muove in un'epoca di fortissima religiosità, di aspri contrasti e di alti afflati personali, sociali, politici, in cui bene e male sono tutt'altro che indifferenti. Tuttavia, con i poli opposti del peccato e della grazia fa i conti il cuore di ogni uomo e di ogni donna, e nulla è mai davvero perduto o disprezzabile fino all'ultimo istante: perché il mondo è un campo di battaglia, ma già redento, ed in esso si agita il desiderio, la nostalgia della bellezza, di una misericordia che possa supplire quando manca la forza morale, la volontà, l'energia. E' questo che sperimenta Kristin nella sua vita, e che alla fine ci fa chiudere il libro dicendo che sì, si è trattato di una vita degna di essere vissuta.
(Dile)