venerdì 26 febbraio 2016

Come spendere inutilmente i propri soldi e vivere felici

Se ci pensate, tutti ne avete almeno una. Una cosa che pensavate fosse un grande acquisto e invece non avete mai usato, eppure tenete lì, sperando che prima o poi verrà il suo grande momento.
Ecco, io ne ho cinquanta, e tutte simili.
Sono i gloriosi pezzi di una imperdibile collezione di Giochi di Legno, che ho completato nell’arco di tre anni prima di sposarmi (sapevo che dopo sarebbe stato impossibile!)
Iniziai con il primo pezzo, ovviamente in super offerta speciale, che mi conquistò subito dallo scaffale dell’edicola: un “forza quattro” tridimensionale realizzato in legno d’olivo bicolore.



Dovete sapere che ho una vera passione per il legno d’olivo: con quelle venature marcate, ondulate, spudorate e decise, che attraversano la superficie come fiumi amazzoni; con quell’odore intenso, penetrante e dolce, che parla di terra e di tempo; con quei profili irregolari ma composti, che nascondono come una segreta armonia, una trama di bellezza scolpita dagli anni.
Aggiungeteci il tocco nerd del “forza quattro 3D”, e aggiungeteci pure che essendo “chiari” e “scuri” non rischio di confondere il colore dei pezzi, come accade a volte con i forza quattro VERDI E ROSSI (ma io dico….daltonofobici!!)
Insomma l’ho comprato. E l’ho portato entusiasta al successivo appuntamento con Dile. Lei in effetti mi ha guardato in maniera strana, come a dire “ma che c…..???”, ma poi per amor mio ha accettato di giocare. 
Ho vinto. Me ne ricordo bene. Lei dice di no ma io ne sono sicuro. Tornato a casa ero così orgoglioso del mio forza quattro 3D in tinta natural, che ho preso la decisione di completare tutta la collezione di Giochi di Legno.
Il secondo numero costava di più, ed era meno divertente, ma pace, avevo la borsa di dottorato, ero ancora single, e poi ah, quel legno d’olivo…!
Per i primi dieci pezzi ci ho anche giocato, vi assicuro, e mi sono letto gli immancabili fascicoli illustrativi pieni di interessanti approfondimenti storico-culturali; c’erano giochi più etnici, altri più matematici, alcuni rompicapo da risolvere da soli, altri da sfruttare in serate con gli amici.
Insomma, tutto sommato non era male.
Ma poi, dall’undicesimo numero, sono arrivati i cloni: tutti dello stesso tipo, pezzi incastrati tra loro a formare un solido, che tu devi disfare e poi tentare di rifare. Il primo non mi è riuscito, il secondo neanche, dal terzo ho smesso di giocarci.
Ho anche provato a non comprarli più, ma non ci sono riuscito, ormai ero entrato nel loop: avevo sottoscritto un abbonamento per cui me ne arrivavano quattro al mese, non sapevo quanti ne mancassero, “ormai finiamo la serie”, mi dicevo… e così, il Sistema ha vinto. Ormai alle porte del matrimonio, è arrivato il fatidico pacco 47-50, e la serie è finita. Nel “pratico raccoglitore” non entravano più fascicoli. Per un pelo.

Entrati in Via delle Cose Nuove, eccoci al dunque: dove mettere i Giochi di Legno? Anche qui la mia amorevole moglie ha avuto pietà di me, ha capito di aver sposato un fissato, ha represso gli istinti che la facevano pensare al caminetto come “soluzione finale”, e mi ha portato all’Ikea a comprare una bellissima vetrinetta, per esporre i miei tesssori.



Così adesso nel nostro salotto, peraltro quasi tutto in legno, troneggia la mia collezione. Nessuno ci gioca, ma tutti quelli che entrano dicono “wow, fantastici!! Bellissima collezione, originale!”. E a me per ora basta così. È già qualcosa che siano belli e facciano arredamento. Anche l’estetica ha la sua dignità. Spiegatemi voi l’utilità di un quadro, o di un orecchino, o dei fregi minuziosi del duomo di Firenze. Ecco, la bellezza è il fregio della vita.

E poi, in fondo, io sono sicuro che prima o poi userò quei giochi, o qualcuno ci giocherà con me.
Stanno lì vicini l’un l’altro, a prendere il sole ed aspettare che la vetrina finalmente si apra, e che loro siano liberi, che possano cadere, trasformarsi in risa, dare profumo e allegria, ricordarci che a volte anche noi siamo così: belli da vedere, ma ancora più belli se ci mettiamo in gioco.


Ah, mamma, lo so: a casa tua ci sono ancora gli scatoloni con gli ultimi otto Giochi della collezione, non li ho neanche aperti. Lo farò, prometto. È che nella vetrinetta non ci sono più posti! (Dile, ne compriamo un’altra???)

martedì 2 febbraio 2016

Di là dalla rete



Mentre l'autunno declinava nell'inverno, è morta la nostra vicina di casa. Era una signora anziana e gentile che viveva sola, originaria del paese, mai sposata e rimasta nella casa della famiglia in cui era cresciuta, curando il suo giardino che confinava col nostro  e lo faceva sfigurare, soprattutto per via dei fiori bellissimi, facendo andare la lavatrice nel capanno attaccato alla parete del nostro bagno, stendendo i panni sul filo teso davanti al nostro lastricato.
Una signora ordinaria, attenta ad essere sempre "ben tenuta" e presentabile, che forse per questo dimostrava meno degli anni che aveva. D'estate, andando ad annaffiare al crepuscolo, sentivamo la sua televisione accesa in cucina mentre la canna spingeva il suo getto in mezzo all'odore dei pomodori maturi dell'orto. Uscendo di casa e salendo in macchina la incontravamo affaccendata sotto il piccolo pergolato, e ci scambiavamo saluti gentili, assecondando le sue chiacchiere un po' pettegole un po' affettuose. Curando il prato e l'orto, era quasi impossibile scampare ai lunghi bottoni che attaccava, ben contenta di avere qualcuno con cui parlare. 
Fin dal matrimonio avremmo voluto mettere un canniccio tra il suo giardino ed il nostro, appoggiato alla rete metallica che li separava e che non offriva alcuna privacy. Un po' seccati, avevamo sempre lasciato perdere, temendo che lo avrebbe preso come un segno di fastidio nei suoi confronti.  
Sono contenta che abbiamo rinunciato così a lungo da non aver più bisogno di chiederci se le avrebbe dato fastidio o le avrebbe fatto dispiacere.  

Pochi giorni ricoverata, giusto il tempo, per noi, di una visita - così apprezzata da lei che ci siamo sentiti in colpa per averlo deciso solo così, all'ultimo momento, perché avevamo un attimo libero. Le abbiamo dato la mano- le nostre mani sembravano così giovani intorno alle sue che erano così vecchie. E non sapevamo se eravamo noi a portarle un po' di vita e di giovinezza entrando nella sua stanza o lei che ci faceva sbirciare nella vecchiaia, nella morte, guardandoci dal guanciale del letto. Abbiamo detto "a presto", come si dice sempre. Sconcertati e impacciati dalla malattia e dalla debolezza. Imbarazzati e dispiaciuti.
Così, nell'autunno mite di quest'anno, è passata la morte per le sue vie misteriose, e sono rimaste le mollette sul filo da stendere e la casa chiusa e vuota, e i fiori che nessuno cura più, il capanno sbarrato con la porta che non può più sbattere se la notte tira vento, e la televisione spenta dietro le imposte serrate. E noi ci chiediamo stupiti com'è che sentiamo la mancanza di una signora solo gentile, solo vicina di casa, che trascorreva tranquillamente la sua vecchiaia gomito a gomito con noi e talvolta ci costringeva a pazientare con le sue chiacchiere. 
E ripensiamo ai giorni che non sapevamo fossero i suoi ultimi, e guardiamo da una posizione privilegiata cosa avviene di una casa, di una vita, del bozzolo che una persona costruisce intorno a sé quando il quid fugge via. 
E come sono diverse le cose senza l'uomo ad animarle, e come sembra strano il filo per stendere se non è più semplicemente senza panni stesi, ma senza più panni da stendere. E che cos'è che rende l'umano diverso dalla polvere di cui pure è fatto anch'esso, e cosa abitava nel giardino di Silvana, nella casa di Silvana, nel corpo anziano di Silvana che non era il giardino, non era la casa, non era il corpo. Cos'era, che è misteriosamente fuggito via sul finire dell'autunno -senza clamore, senza troppo lutto, senza grandi sconvolgimenti, senza che in nulla alcunchè sembri mutato- eppure tutto è diverso, diverso.  
E mettendo il canniccio che temevamo potesse dispiacerle, adesso che sicuramente non se ne dispiace, ancora avvertiamo l'impronta lasciata di là dalla rete da qualche parola gentile, da qualche pettegolezzo, da qualche saluto veloce.