martedì 27 marzo 2018

Into the wild




Ora che la primavera è arrivata (per lo meno secondo il calendario) possiamo raccontarlo.
Il finesettimana tra il 3 e il 4 marzo da queste parti come un po' in tutta Italia il clima era polare. La montagna qua sopra era non semplicemente innevata, ma sommersa di neve. Burian stava creando problemi un po' dappertutto, ma noi avevamo un progetto da realizzare, e la neve ci serviva.
Ok, forse non così tanta, ma insomma, tutto stava andando secondo i nostri piani.
Cosa abbiamo fatto? Abbiamo dormito in una truna, cioè in un rifugio costruito con la neve. A oltre mille metri di altezza. E, beh, come potete arguire dal fatto che state leggendo queste righe, siamo sopravvissuti. Io, contrariamente alle aspettative, non mi sono neanche ammalata (ma non posso dire che a scuola, il lunedì dopo, fossi esattamente un fiore).
Ed eccovi genesi e resoconto di questa malsana idea.

Io e Dama siamo da un paio d'anni nello staff di una "bottega R/S ": tradotto dallo scoutese, significa che una volta l'anno accogliamo ragazzi e ragazze dai 16 ai 20 anni più o meno da tutta la Toscana per approfondire una specifica competenza nel corso di un finesettimana: nel nostro caso la sopravvivenza in montagna d'inverno. L'anno scorso non eravamo riusciti a realizzare il progetto fino in fondo: il weekend stabilito non abbiamo trovato la neve, anche se ha fatto una generosa nevicata mentre eravamo in quota. Non avevamo potuto costruire le trune, e avevamo dormito in un rifugio del CAI. Quest'anno, di neve ce n'era anche troppa, e prima della partenza Emanuele, nostro efficientissimo collega nello staff, aveva dovuto procurare ciaspole per tutti.
Siamo saliti in Secchieta, cinque adulti e dieci ragazzi: paesaggio scandinavo e condizioni climatiche decisamente non favorevoli. Neve alta e fresca, tanto che, col peso dello zaino sulle spalle, anche le ciaspole non prevenivano dall'affondare. Peggio ancora, veniva giù un nevischio che assomigliava decisamente a pioggia, e quindi bagnava davvero.
Ora, malgrado io sia una scout da tempi immemorabili, era la mia prima vera esperienza con le ciaspole: non mi era mai capitato di camminare nella neve così fresca e così alta col peso dello zaino. Le ciaspole sono utili ma dannatamente faticose e scomode. Complici i miei piedi piuttosto piccoli e la mia assai scarsa coordinazione, sarò caduta almeno quattro volte (tra la commiserazione e lo sconcerto dei ragazzi, ma lasciamo perdere).
Ad ogni modo, per chi di voi si sta chiedendo se davvero alla fine siamo stati così pazzi da dormire nella neve in montagna, la risposta è : l'abbiamo fatto - e la notte è stata di gran lunga il momento più caldo e asciutto dell'intera uscita!

Trune in costruzione!
Le trune si costruiscono scavando grosse buche più o meno quadrate, che possano contenere quattro o cinque persone sdraiate. Con la neve rimossa si forma un muricciolo lungo il bordo, che va consolidato e compattato. Poi si appoggiano al muretto di neve rami sgrossati, per formare una sorta di travatura rudimentale che sorregga il "soffitto", e infine si copre il rifugio con un telone impermeabile da appoggiare sopra i rami e "cementare" al muretto con altra neve. Alla fine si ottiene una struttura bassa, alla quale si accede solo tramite un breve tunnel, e dentro cui si può stare solo sdraiati (ma anche questo è funzionale al mantenimento del tepore, visto che l'aria calda tende a salire). Sul fondo della truna, un altro telone impermeabile per pavimentare.

Ed ecco due trune pronte all'uso!

Tra camminata per raggiungere il luogo stabilito e costruzione dei rifugi, in lotta contro il tempo per finirli prima del buio, non è stato un pomeriggio di tutto riposo. Alla fine eravamo fradici fin nelle mutande. Quindi cambio completo e fuoco (fumoso per la legna umida) dentro la vecchia cara Capanna delle Guardie, un posto tappa noto e amato da tutti i frequentatori della Secchieta. Poi le parti belle di una serata scout: il vecchio tavolo coperto di salsicce da bucare e patate da incartare per cucinare alla trappeur, qualche pesce da fare al cartoccio, i piedi che si scongelano al fuoco, la luce fioca delle torce e delle lanterne, il giornale accartocciato negli scarponi, il cordino di riserva nello zaino teso attraverso la stanza, carico di calzini, maglie e giacche che si cerca (inutilmente) di far asciugare (umidità dell'aria: circa 98%). Quando, sul tardi usciamo dalla capanna per andare a dormire ci sentiamo un po' matti.

Pronta per la nanna!
Non era la prima volta che dormivo in truna. Sapevo per esperienza che, contrariamente a quanto si può immaginare, il freddo prende da sotto, non da sopra: sale dalla terra. Quindi ero organizzata: isolante, materassino autogonfiante, una coperta da mettere sotto, un grande sacco nero condominiale per contrastare l'umido. Prese queste precauzioni, dentro il sacco a pelo da alpinismo sono stata bene: asciutta e, sì, calda, del mio stesso tepore e del calore animale dei miei compagni di truna. Con questo non voglio dire che sia stata una notte comoda: avevamo avuto poco tempo per rifinire il pavimento, che era irregolare e un po' in discesa, e, beh, insomma, eravamo pur sempre in una buca nella neve. Ma eravamo ben isolati e il vento non soffiava: il bosco notturno sembrava fermo in un incantesimo di gelo, senza rumori se non lo scrocchiare della neve sotto i passi.

La mattina sveglia presto (molti erano già svegli… qualcuno meno attrezzato aveva sì e no chiuso occhio), un gran daffare per far colazione, ripulire il bosco e la Capanna dalle nostre tracce, rifare gli zaini impacchettando panni in gran parte ancora bagnati, teli, pale da neve, torce, gavette non lavate. Poi ciaspole ai piedi, con doloretti che si risvegliano in circa trentasette punti diversi del corpo, e si riparte, giù lungo il sentiero che costeggia la montagna, tra sprazzi di panorami affacciati su un Valdarno mangiato dalla foschia, e poi nella foresta secolare di Vallombrosa, fino a raggiungere l'abbazia.


Siamo tornati alla civiltà: stanchi, molto sporchi, abbastanza umidi, trasognati. Ci raccontiamo cosa abbiamo imparato: l'entusiasmo dei ragazzi, anche dei più bagnati e acciaccati, è davvero tanto. I pochi passanti che incrociamo sotto le grandi mura dell'abbazia sembrano alieni al nostro piccolo gruppo di sopravvissuti. Lentamente ci spogliamo dei panni di rover del Grande Nord. Ci togliamo le ciaspole dai piedi. Le ghette dalle gambe. Carichiamo gli zaini sui furgoni. La mente corre alla doccia, al termosifone, ma in fondo un po' ci dispiace. Ci giriamo a salutare il wild che incombe ancora vicino, acquattato già tra la prima penombra degli alberi della foresta, proprio alle nostre spalle.
Abbiamo vissuto intensamente il cuore della montagna d'inverno. Ora, com'è per tutti i reduci, non ci resta che scendere a valle e raccontare l'avventura.



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