Il post in cui Damiano mi sfotteva
allegramente per la mia nerdaggine era in realtà funzionale a introdurre una,
chiamiamola così, categoria di post dedicati a parlare di libri/film/altro che
ci abbiano colpiti -una categoria che, in virtù della nerdaggine di cui sopra,
accrescerò soprattutto io, immagino. Si tratta di post assolutamente
autoreferenziali (beh, non che gli altri non lo fossero, in effetti), ma
sarebbe assurdo che nel blog di una coppia in cui una parte consistente della
conversazione si impernia su discussione/recensione di opere (sì, siamo persone
molto noiose) non comparisse traccia di questa attitudine. In parole povere: se
vi annoiate, sarà per il prossimo post.
Ho recentemente riletto Agnes Grey, di Anne Brontë. L'ho
comprato in un'edizione diversa da quella che c'era a casa dei miei, ed
inizialmente ho attribuito alla diversa traduzione la strana sensazione di
insoddisfazione che la lettura mi ha provocato. Alla fine del libro, però, ho
dovuto ammettere che era la storia stessa a lasciarmi insoddisfatta... e
questo è in qualche modo straniante, perché ho sempre ritenuto Agnes Grey un libro piacevolissimo, una
"chicca": l'ho riletto molte volte con piacere, pienamente d'accordo
con coloro che ritenevano l'etichetta di "romanzo minore" del tutto
ingiusta. Non che lo considerassi un capolavoro, ma rimanevo ammaliata
dall'equilibrio dello stile, sobrio e diretto, dal gioco dell'elusione, che rende
il lettore capace di capire tutto dei sentimenti di Agnes senza quasi che ci
sia bisogno che lei li espliciti. Non ero disturbata dallo "scontato lieto
fine" perché rappresenta il corollario perfetto ed equilibrato del
racconto.
Agnes Grey è il principale
romanzo di Anne, la minore delle sorelle Brontë, e c'è molto di autobiografico
nella figura della protagonista, che, come la sua creatrice aveva fatto a sua
volta, si allontana dalla casa paterna (dove è la figlia minore, coccolata ed
in qualche modo protetta) per guadagnarsi da vivere nel vasto mondo esterno.
Anne in un ritratto di suo fratello |
Agnes è una figurina solitaria, al punto
che il romanzo si risolve quasi tutto non tanto negli eventi quanto nella
vicenda interiore della protagonista in cui essi si rispecchiano: non c'è cosa
che avvenga che non sia filtrata dai suoi occhi acuti e riflessivi. E' sola
perché si muove in un mondo del tutto ostile: uscita di casa un po' per
sperimentare la libertà e un po' per sopperire alle necessità economiche della
famiglia, si imbarca come moltissime ragazze della media borghesia colta nella
professione di governante-istitutrice, con tutte le ambiguità di un ruolo che
la pone a metà tra serva e gentildonna, sola nel suo status "mediano"
che non le fornisce alcuna possibilità di comunicazione né con l'una né con
l'altra classe. Le sue disavventure sono quelle a cui andava incontro
inevitabilmente ogni istitutrice all'epoca, e sono descritte col sapore
dell'esperienza vissuta dalla stessa Anne: nessun rispetto per il ruolo,
freddezza da parte dei datori di lavoro, vane lotte contro principi educativi
assurdi, bambini viziati, capricciosi,
una routine quotidiana faticosissima, per nulla simile all'idea che abbiamo
oggi di un "lavoro intellettuale". In questo, Anne è una pittrice
molto più fedele del mestiere rispetto a sua sorella Charlotte, nonostante la
Jane Eyre di quest'ultima sia diventata una delle istitutrici più famose della
letteratura. Ma Jane ha un colpo di fortuna notevole: becca al primo impiego un
posto ben remunerato, una sola allieva docilissima, in un contesto dove può
sostanzialmente fare ciò che vuole (e alla fine sposa anche il fascinoso datore
di lavoro). Questa non era certo la regola nel mondo reale, fatto di impieghi
malpagati, licenziamenti, sputi in faccia, caos, rimproveri di genitori con
pretese impossibili e continue umiliazioni derivanti dalla sostanziale
equiparazione alla servitù, nonostante tutta la propria cultura.
The governess, di E. M. Osborne |
Dunque Agnes sperimenta un primo impiego
disastroso, da istitutrice-governante dei bambini Bloomfield, venendo presto
licenziata, e ritenta una seconda volta presso una famiglia di più alto ceto
sociale e con figli più grandi, i Murray. Qui, il confronto quotidiano con le
due allieve (Rosalie e Matilda, ragazze in modi diversi superficiali, che si
avvicinano all'età del debutto in società) si affianca all'incontro con il
nuovo curato della parrocchia: il signor Weston, in cui Agnes riconosce uno
spirito affine. La relazione, messa in difficoltà anche dalle limitazioni imposte ad Agnes dal suo ruolo, sembra destinata
a concludersi definitivamente, senza nemmeno essere del tutto sbocciata, quando
il tracollo della salute e la morte del padre di Agnes la richiamano a casa. In
seguito, Agnes affianca la madre nel progetto di una scuola privata e, immersa
nel nuovo lavoro, finisce per lasciarsi alle spalle l'esperienza straniante
vissuta nel mondo dell'"alta società". L'incontro finale con il
signor Weston, finalmente in un contesto in cui Agnes è libera e non più alle
dipendenze di nessuno, porta alla maturazione del rapporto così bruscamente
interrotto e al lieto fine.
Una storia semplice, dunque, una storia che
può benissimo essere accaduta da qualche parte in Inghilterra, con tutta
probabilità la storia che Anne Brontë avrebbe voluto aver vissuto. Niente di
romanzesco nelle vicende di Agnes: duro lavoro quotidiano e una liberazione che
avviene comunque attraverso il lavoro (così come Anne e le sue sorelle avevano
sperato di emanciparsi dal dover andare a lavorare in casa d'altri con la
costituzione di una loro scuola, un progetto che non si realizzò mai).
Allora, cosa c'è che non va in questo
piccolo libro scritto benissimo, in questa trama ineccepibile, in questo acuto
ritratto di uno status tanto comune all'epoca e quasi incomprensibile oggi per
noi?
Ebbene, il punto è questo: Agnes non
ama il mondo che la circonda. Non si tratta di un disprezzo più o meno
finalizzato per il mondo ipocrita e convenzionale della buona società, dove i
valori non sono che facciata, la religiosità è vissuta senza la minima traccia di
interiorizzazione, i soprusi sul più debole sono all'ordine del giorno. No, è
il mondo intero che è ostile, brutto e squallido. Anche i poveri che Agnes
visita e assiste nel tempo libero non sono una compagnia che rasserena in
quanto esempio di una possibile diversa umanità. Persino la natura bella e
rigogliosa di Horton Lodge, la proprietà della famiglia Murray, non va bene:
"per me era piatta in modo deprimente". D'accordo, Agnes è
lontana da casa e infelice, e tutto il mondo le sembra triste. Ma possibile che
interfacci solo e soltanto nemici? Dice di essere affezionata alle sue allieve,
ma non c'è mai, in nessun caso, un'occasione in cui possa dire bene di loro. Si
aspetterà invano che emerga qualche motivo per questa dichiarata affezione, e
alla fine sorge il dubbio che sia soltanto dichiarata, appunto... perché dire
che le detesta non sarebbe degno di Agnes. I Bloomfield, come i Murray e
tutte le famiglie che ruotano loro intorno nella piccola cerchia sociale di
Horton sono omogeneamente appartenenti alla classe dei "cattivi", ed
Agnes non può far altro che subire la loro cattiveria quando è diretta verso di
lei oppure osservare come essi stessi si rovinino con le loro mani. E' un'istitutrice, eppure non
la vediamo influenzare in alcun modo la personalità dei suoi allievi con la sua
rettitudine e la sua onestà. Se questo può essere giudicato come una
rappresentazione non idealizzata del difficile mestiere di educatore, è anche
forte la sensazione che Agnes abbia già deciso in partenza che con
Rosalie e Matilda Murray non ci sia niente da fare: gli scarsi progressi che
esse fanno non sono tali da riuscire a vincere la loro natura intrinsecamente
malvagia.
In questo quadro generale, è difficile non
considerare moralistico l'episodio in cui Agnes si reca in visita dall'ormai
sposata Rosalie, che ha ottenuto il marito ricco che voleva ed è totalmente
infelice, essendosi per superficialità legata ad un prepotente libertino di cui
ha ribrezzo. Quello che infastidisce davvero di tale episodio non è il "te
l'avevo detto" che aleggia nell'aria, ma il ribadire che Rosalie non è
cambiata nemmeno dopo questa esperienza: è sempre una scema senza
speranza, egoista e frivola, l'allegoria della vanità che non vuole occuparsi
della figlia che ha avuto perché "diventerà più bella di me". Si è
rovinata con le sue mani e adesso cerca pateticamente la compagnia della sua
ex-istitutrice perché non ha un amico o uno svago al mondo… ma Agnes, che pure,
come ha più volte dichiarato, le vuole bene, non si fa commuovere neanche dalla
richiesta di prolungare la visita, e dopo due o tre giorni se ne va, lasciando
la povera Rosalie a cuocere nel suo brodo. A questo punto, un pensiero si fa
strada nella mente del lettore. Agnes forse non sarà così meschina da essere
contenta che la povera Rosalie che in passato l'ha umiliata non se la passi
bene, ma una cosa è certa: non ha mai veramente pensato di poterla
"educare". Rosalie era perduta fin dall'inizio per lei: ineducabile,
come tutta la classe a cui appartiene. Non c'è redenzione per una come Rosalie:
Agnes le raccomanda caldamente di cambiare mentalità, ma sa già che
questo non avverrà.
Insomma, Agnes non ha alcuna simpatia per
il mondo, né nutre alcuna speranza nella possibilità di un cambiamento dei
"cattivi". La luce della grazia lascia alcuni in ombra, e non c'è
educazione che tenga, né sfumatura che si possa affermare nel variegato
panorama umano. Non c'è un solo personaggio dallo status morale ambiguo lungo
il romanzo, o che compia un percorso dal bene al male o viceversa. Sono tutti "tipi morali", saldissimi nella
loro affermazione. E la luce che gloriosamente indora il mare nella scena
finale della scogliera è una luce che illumina solo Agnes e il signor Weston, e
lascia in ombra tutto il resto del mondo, che vada o meno a rotoli. Forse per
questo rileggere Agnes Grey mi ha
lasciato con l'amaro in bocca. Ho percepito quello che in letture più giovanili
non avevo colto: l'incompletezza di una visione che non ama tutta la
realtà, che non concede una possibilità a tutto.
(Dile)
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