Ho pendolato quasi
tutta la mia vita, cominciando prestissimo. Quando avevo undici anni la mia
famiglia si è trasferita fuori Firenze, ed io sono diventata una pendolare in
seconda media, per non lasciare la scuola che stavo frequentando. I lunghi
viaggi in macchina (quasi un'ora all'andata e altrettanto al ritorno) con i
miei genitori e, dopo qualche anno, anche con mia sorella, sono diventati parte
integrante di una routine quotidiana che è continuata per più di un decennio,
con itinerari studiati per ottimizzare gli spostamenti e strategie per
accordare i nostri orari. Questi viaggi in macchina hanno segnato un'intera
epoca della mia vita.
Quando mi sono
sposata, però, sono entrata a far parte di un fenomeno sociale vero e proprio,
ossia quello che accomuna la grande compagine dei Figli delle Ferrovie dello
Stato. E che offre incomparabili occasioni di studio antropologico.
A dire il vero, il
treno mi piace. Mi piace il rollio regolare del suo andare, che concilia la
lettura, mi piace il rumore, tumtumtumtum,
la campagna toscana che fugge dal finestrino, sempre la stessa ma diversa ogni
giorno per via del tempo che cambia, dell'orario, delle stagioni. Mi piace
sbirciare il retro delle case che affacciano sulla ferrovia, prima di Campo di
Marte, con i panni stesi e le piante, e l'aria stropicciata e quotidiana.
Naturalmente ci sono anche tutti gli aspetti brutti, sgradevoli e insopportabili
che conosce benissimo chiunque prenda il treno con regolarità: la folla
strabordante delle ore di punta, quando l'unica speranza di procacciarsi uno
strapuntino per sedersi rimasto miracolosamente libero è riuscire, con calcoli
complessi e un po' di fortuna, a fare in modo che la porta del vagone si fermi
esattamente davanti a te e tu sia il primo a salire. Il caldo soffocante delle
carrozze "climatizzate" e quindi con i finestrini sigillati, dove
però di climatizzazione non c'è traccia e la temperatura interna ricorda quella
di una serra per piante tropicali. D'altro canto, niente di meglio per la salute
di una carrozza con la climatizzazione attiva e funzionante, e regolata sui
-7°, soprattutto quando si sale belli sudati dopo una corsa per acchiappare il
treno al volo e neanche uno straccio di golfino per riparare il collo. Ci sono
i bagni sistematicamente guasti. Quelli delle stazioni invece sono a pagamento:
un euro per prendersi la tua pipì. Che nessuno lo dica al water di casa mia o
potrebbe cominciare ad avere strane manie di grandezza. Poi ci sono i ritardi
lunghi, esasperanti, scanditi dalla voce sintetica dell'altoparlante che a
intervalli regolari rilancia allungando il numero di minuti che ancora
attendono tutti noi, inchiodati in questo particolare pezzo di binario tra
Compiobbi e Firenze Rovezzano per ragioni sconosciute. L'impassibile altoparlante
inserisce una variazione sul tema solo quando il ritardo supera i venti minuti,
quando comincia a chiosare "Ci scusiamo per il disagio". Perché, si
sa, fino a venti minuti il ritardo invece è un piacere.
Ma il meglio (e il
peggio, come sempre) della vita pendolare è rappresentato dall'Umanità
Pendolare, che ti circonda e ti accompagna ogni mattina e ogni sera. La signora
con trentaquattro valigie che ti fissa indignata quando osi chiedere se puoi
sederti, perché pensa chiaramente che la cappelliera sia un posto molto più
adatto a te che alla sua preziosa
trousse da viaggio Louis Vuitton. Il conversatore telefonico a cinquemila
decibel, dei problemi del cui ufficio l'intero vagone è informato
minuziosamente. La coppia di adolescenti che si intrattiene pomiciando con tale
impegno che ci si chiede se passeranno allo stadio successivo. Lo studente
angosciato che usa l'evidenziatore giallo sul libro con la violenza della
disperazione, shhhuu, shhuuuu, shhuuu, e la versione serale furente
e/o sconsolata che confida all'amico "quello st* mi ha bocciato per la
terza volta". Il Senza Biglietto beccato senza biglietto che argomenta
iroso che "...voialtri con tutti questi disservizi non vi vergognate a
multarci come se fossimo dei delinquenti?" (risposta: "allora, ce
l'ha o no un documento?"). Le colleghe che parlano di Quella. Ma sì, dai,
Quella. Quella che l'altro giorno lo sai cosa ha fatto? Quella che io lo dicevo
da sempre che. Quella che, cioè, ti rendi conto? Quella che dimmi te cosa
dovevo rispondere io. Insomma, Quella. Non avete mai sentito parlare di Quella?
Vuol dire che non prendete spesso il treno.
Eppure, questa
umanità pendolare mi piace come mi piace il treno. Chi legge, e vorresti
chiedergli se il libro è bello. Chi è chino sullo smartphone, e vorresti dirgli
che quel livello di Candy Crush è stato difficile anche per te. Le facce
pallide di sonno della mattina, che scambiano sorrisi di comprensione tra
perfetti sconosciuti, mentre i piedi si scansano per far posto a chi viene a
sedertisi davanti. E al ritorno, nell'isola di luce gialla del vagone che corre nella sera buia, tutti quei visi
diversi eppure somiglianti nel misto di stanchezza, sollievo perché anche oggi è
andata, impazienza per arrivare a casa, ciascuno accanto al proprio gemello
riflesso nel finestrino. Tutti che, come me, oscillano sempre tra dentro e
fuori la città, tra abitare e lavorare, tra casa e l'altro da casa, tra dove
devo stare e dove voglio stare, come elastici continuamente tesi e rilasciati.
Quando la folla, lungo il
binario e nel parcheggio che odora di asfalto, si disperde col brusio della giornata che finisce, saluto
mentalmente i miei casuali compagni d'avventura, "A domani!", mentre
il treno riparte tumtumtumtum verso
Bastììa! Assììsi! Spello! e sparisce
nella notte.